Pesto e Parmigiano

Nel regno dei palati fini il re dei condimenti si allea con il re dei formaggi.

di Marcello Tripodo

I foresti che assazan o pesto no se ne van ciù da Zena ( I forestieri che assaggiano il pesto, non partono più da Genova).

Nel gergo genovese pesto significa un battuto di basilico, d'aglio e di formaggio (pecorino sardo e parmigiano-reggiano), preparato nel mortaio e sciolto nell'olio.

E’ un vanto assoluto della cucina ligure e oggetto di interminabili discussioni circa la sua origine, che fa tutt’uno con il basilico, pianta aromatica di cui esiste, dal 2008, un “Consorzio di tutela del Basilico Genovese DOP”.

Del pesto esistono innumerevoli versioni sia in Liguria che in altre regioni.

Persino la Francia ha la sua ricetta per la sauce pistou. In una panoramica sulla cucina italiana non c’è tradizione gastronomica tipica che non abbia una ricetta di “pesto” vegetale. Tuttavia il “pesto alla genovese” è il principale, quasi il capostipite del genere. Grazie alla sua notorietà planetaria, è stato istituito un Campionato mondiale di pesto alla genovese al mortaio, il Genova Pesto world championship, che ogni due anni premia il miglior pesto, fra i cento partecipanti.

Esistono due varianti fondamentali: quello di “Ponente” di gusto energico semplice, quello di “Levante” con minor proporzione di aglio e presenza di elementi d’ingentilimento.

Il pesto – benché la modernità gastronomica lo consegni spesso al frullatore-andrebbe assolutamente preparato con il mortaio di marmo e pestello in legno di pero o di bosso – utilizzando le foglie di Basilico genovese DOP in fiore, da intridere assieme a buon olio extra vergine di oliva della riviera ligure, sale grosso marino, preferibilmente di Cervia, pinoli, pecorino Fiore Sardo invecchiato 6 mesi e Parmigiano-Reggiano stravecchio.

Non sopporta una conservazione prolungata, in quanto il basilico perde fragranza. 

 

Ricetta

Ingredienti:

1 spicchio d’aglio

2 mazzi di basilico, circa 36 foglie (fresce, private del gambo)

2 cucchiaini di pecorino sardo stagionato e grattugiato

2 cucchiaini parmigiano reggiano stagionato e grattugiato

1 cucchiaio di pinoli

6 cucchiai di olio extra vergine di oliva ligure

1 cucchiaino di sale grosso marino

 

Prima di tutto nel mortaio si pestano l’aglio e il sale grosso. Quando la mistura si è amalgamata si inseriscono le foglie di basilico precedentemente lavate ed asciugate.

E’ importante che il pestello non ammacchi gli ingredienti sul fondo del mortaio, ma muovendosi in senso rotatorio sulle pareti li sciolga senza violenza e li impasti progressivamente e lentamente.

Dopo il basilico tocca ai pinoli e ai formaggi. Infine si stilla l’olio goccia a goccia.

 

Cenni storici e curiosità

Con il “buon appetito” di rito, il “pesto alla genovese” offre alcuni interessanti – ancorchè veloci- spunti di riflessione sulle influenze e le sovrapposizioni gastronomiche che caratterizzano la cucina italiana e in particolare quella di Parma.

Nel caso specifico la presenza caratterizzante del Parmigiano-Reggiano  nella ricetta del pesto alla genovese. Che al di là delle questioni di gusto e sapore, ha peculiari radici storico-geografiche che meritano di essere ricordate.

Agli inizi del XVII secolo, quando la cultura dell'olio non era ancora pienamente sviluppata e in Liguria nasceva un diverso modo di utilizzare l’olivo (non più per la sua legna, ma per il suo frutto), ci furono molti contatti e contaminazioni con la vicina pianura padana.

In quei tempi la Liguria, legata sostanzialmente alla pesca, non disponeva di alcuni alimenti che oggi ritroviamo sulle nostre tavole. Non c’erano prodotti come la carne bovina e suina e il formaggio, oggi chiamato parmigiano, al contrario relativamente abbondanti al di la d ell’Appennino. Proprio questi prodotti venivano acquisiti attraverso lo scambio di olio d'oliva. Detto che il baratto era regolato dai Mercuriali (listino dei prezzi stabiliti dai regolamenti di vendita per i mercati pubblici), aggiungeremo che lo scambio si basava non solo sulla merce ma anche sul lavoro: i pastori parmigiani, che durante l'inverno portavano il gregge a valle o sulla costa ligure, si occupavano della raccolta e della macinazione delle olive presso monasteri o agricoltori liguri. In cambio del loro servizio ricevevano non denaro ma olio.

Intorno al 1600 e fino al 1700, secondo i citati Mercuriali (conservati negli Archivi di Stato di Genova e Parma) la paga giornaliera di un lavoratore medio corrispondeva a circa 1,7/1,9 litri di olio. In tempi più recenti se volessimo invece fare dei confronti, sempre utilizzando l’olio d’oliva come “moneta”, la paga di un lavoratore medio sarebbe stata di  0,05 litri nel 1944, e di 8,6 litri nel 1994.

Le origini di tale salsa vegetale si potrebbero far ricondurre al romano moretum, consumata dal contadino Symilo, ben spalmata su una focaccia[1] nel poemetto georgico Moretum, attribuito a Virgilio o alla Pseudo Virgilio.

La ricetta di Columella prevedeva di pestare in un mortaio formaggio fresco e formaggio salato con santoreggia, menta, ruta, foglie fresche di coriandolo, sedano, erba cipollina (o, in mancanza, cipolline fresche), lattuga, rucola, timo verde o erba gatta (nepitella), mentuccia fresca. Dopo aver ben amalgamato, si mischia con aceto e pepe e si ricopre d'olio.

Quindi il pesto e le sue varianti più disparate allietano le papille gustative fin dai tempi antichi.

 

 
[1] “Quel giorno perciò pensando a che prendere entrò nell'orto, e per prima cosa, scavando leggermente la terra con le dita, ne cavò fuori quattro teste d'aglio con le loro radici fibrose. Poi colse alcune sottili coste di sedano, la fredda ruta ed il coriandolo tutto fremente sugli steli sottili. Quando ebbe raccolto queste erbe sedette allegro vicino al fuoco, ed a gran voce chiese alla schiava un mortaio. Allora liberò gli spicchi d'aglio dall'involucro nodoso, poi tolse loro la buccia che la sua mano sprezzante gettò per terra, spazzandola via lontano da sé; tenne gli spicchi puliti, che sbollentò nell'acqua mettendoli poi nel cavo della pietra. Qui li cosparse di sale ed aggiunse il formaggio indurito nel sale, quindi pose sul tutto le erbe già dette. Passò con la mano sinistra la veste sotto il peloso inguine e con la destra cominciò a schiacciare col pestello l'aglio dall'intenso odore, riducendo in poltiglia anche le altre erbe, che confusero così i loro succhi. La sua mano girava veloce. A poco a poco ogni erba perse il suo verde, e di tanti colori ne fece uno solo che non era tutto verde, poiché la parte bianca del formaggio respingeva questo colore, ma neanche restava bianco, in quanto il latte a contatto con le erbe perdeva il suo candore.
Spesso una zaffata acre e pungente colpiva le nari dell'uomo, ed il suo futuro pranzo lo costringeva ad arricciare il naso. Altrettanto spesso la sua mano era costretta ad asciugare gli occhi lacrimosi mentre egli, furioso, ne accusava un fumo del tutto innocente.
L'opera procedeva bene: il pestello non saltellava più come poco prima ma, più pesante, veniva trascinato in lenti cerchi. A questo punto Symilo cominciò a versare nel miscuglio, a goccia a goccia, olio di olive palladiane, ed a spruzzarvi su la forza di un po' di aceto. Poi di nuovo rimescolò l'impasto, e dopo averlo ben lavorato lo tirò fuori, ripulì accuratamente con due dita il mortaio e infine plasmò il tutto in una palla, per dargli così sia la forma che il nome del moretum...”

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