Un ristorante emozionante

A tu per tu con Terry Giacomello, chef stellato dell’Inkiostro di Parma

di Emanuela Strini

 

Noi italiani mangiamo molto bene a casa nostra, per cui avere un ristorante non è una necessità ma un capriccio, un lusso, un vizio. Al giorno d’oggi quindi se vai a mangiare fuori casa devi andare per fare esperienze insolite, per gustare qualcosa che tu non riesci a preparare. Insomma portarti dal ristorante un ricordo, un’emozione.

In queste parole si racchiude la filosofia della cucina di Terry Giacomello, friulano classe 1969, considerato uno degli chef più innovativi nel panorama nazionale.

Dal 2015 Terry Giacomello è ai fornelli dell’Inkiostro di Parma dove ha confermato e mantenuto la stella Michelin e dove lo abbiamo incontrato per una breve chiacchierata.

 

Una definizione della sua cucina: moderna, molecolare o creativa?

Moderna/contemporanea.

Lei conduce un ristorante stellato nella capitale della food valley italiana, come è stato accolto?

All’inizio non è stato facile. Avevamo molta gente da fuori, ma da un paio d’anni siamo molto apprezzati anche dai parmigiani, soprattutto clienti giovani 28/30 anni in su.

Una cucina decisamente innovativa come la sua tiene conto della tradizione?

Vede, io parto sempre da quello che è tradizionale e sviluppo un piatto con i prodotti del territorio: abbiamo realizzato dei prodotti con del grasso di prosciutto, midollo di prosciutto, con le ossa del prosciutto, con aceto balsamico e molte erbe del territorio. Ritengo queste ultime importanti perché si è persa la cultura di cercarsi le erbe.

Lei pensa che la cucina italiana sia la migliore al mondo o in tempo di globalizzazione non esistono più classifiche?

È  sicuramente una delle migliori al mondo ma secondo me cucine ottime sono quella francese, spagnola, giapponese. Direi comunque che la cucina italiana è una delle migliori, ma non la migliore in assoluto.

E allora tra un ottimo sushi e un buon piatto di tortelli d’erbetta cosa prende?

Sushi.

Quando ha scoperto che sarebbe diventato uno chef ?

Ho iniziato a 14 anni in un ristorante di famiglia dove ho imparato dalla mamma a fare la pasta fresca, i tortelli, ravioli, lasagne, tiramisù e poi ero molto incuriosito da quello che c’era fuori dal nostro paese, perché qui più o meno le cose erano sempre le stesse. Ho conosciuto gli chef più strani che facevano piatti particolari e così ho scoperto la mia vocazione.

I suoi piatti vengono definiti capolavori gastronomici: qual è la prima qualità di uno chef?

L’umiltà. Mi considero un apprendista. Ogni giorno imparo dalla gente che lavora al mio fianco. In cucina non sono da solo ma ho un’ottima squadra. Mettiamo in gioco le nostre conoscenze: l’idea magari parte da me, o da Mirko, o da Leonardo, o da Alex e dopo tutti noi facciamo il piatto e ci critichiamo l’uno con l’altro per sapere poi se il risultato ottenuto è quello che cercavamo.

Uno chef dunque come un coach?

Questo è quello che deve fare lo chef: fare squadra, stimolare i ragazzi e coinvolgere la brigata in quello che fa.

Quando entra in un ristorante qual è la prima cosa che giudica?

L’emozione, la creatività, il fatto di fare cose nuove e il gusto per la ricerca.

Per concludere, che consiglio si sente di dare a un giovane in avvicinamento ai fornelli?

Essere umile, guardarsi in giro, girare più che può.

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