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Giapponesi "King lovers"
Tokyo, maggio 2015, cena di lavoro al 42esimo piano di un grattacielo di Shiodome. Quando il collega giapponese seduto alla mia destra scopre che arrivo da Parma da educatamente taciturno si fa educatamente più ciarlero. E mi parla di un prodotto alimentare eccellente che ha scoperto quando è venuto qui, alcuni anni fa e che nelle sue parole diventa quasi il soggetto di un film di Miyazaki. Mi racconta che, se non fosse per la materia prima che è poco "praticata" nel Paese del Sol Levante, potrebbe essere una produzione giapponese perché la cura, l'attenzione, la precisione e la manualità con cui viene realizzato sono quasi nipponiche.
Inizia annoverandolo nel gotha della cucina perché si tratta di un "raw food", visto che la materia prima viene lavorata a crudo e con una certa maestria, perché non sono ammessi né "ritocchi" né correttivi. Poi decanta la cura con cui viene selezionata perché dev'essere semplicemente perfetta. E poi mi parla della maestria con cui va trattata affinché non si snaturi. Questa materia prima pregiata richiede il massimo rispetto, un concetto molto importante per la cultura giapponese: per questo viene sottoposta a un rituale degno di una Spa orientale, quasi quanto la carne Wagyu Kobe.
Mani esperte le fanno una sorta di linfodrenaggio, con sfioramenti manuali che servono ad eliminare i ristagni di sangue che potrebbero danneggiarla. Poi passano a massaggiarla con una maggior pressione nelle dita per ammorbidire i tessuti e prepararli a ricevere meglio il sale. Quindi entrano in scena altri addetti che la coprono con il grasso che la proteggerà nei lunghi mesi di maturazione: e qui il collega giapponese ricorda ancora di aver fissato quasi ipnotizzato i movimenti di quelle piccole mani femminili che accarezzavano ogni pezzo con distratta eppure precisa concentrazione.
Massaggiata, palpata e accarezzata questa materia prima viene quindi lasciata riposare, nel silenzio e nell'oscurità, per far sì che si trasformi quasi alchemicamente in un altro cibo, ben diverso da quello umido, "terragno" e rustico da cui si era partiti. Ma non è finita: prima di portarla in tavola la si sottopone a un test di agopuntura, un esame che richiede l'abilità di conoscere il punto esatto dove infilare l'ago (in questo caso un osso di tibia di cavallo) per penetrare nei suoi più segreti effluvi e capire, solo inseguendo una flebile scia di aromi instabili e fuggitivi, se è pronta da gustare. Se gli spiriti che governano il tempo, l'aria, l'umidità e la terra hanno permesso questa metamorfosi e hanno acconsentito a donare agli uomini questo piccolo miracolo. Ah, il piccolo miracolo si chiama prosciutto di Parma, nel caso non si fosse capito...
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Parma, il suo mito nell'alimentare, le sue eccellenze gastronomiche, la sua arte di vivere, i suoi tesori visti dal di fuori della cerchia della "Petite Capitale".
About the author
Manuela Soressi
E’ giornalista professionista, specializzata nel food. Da più di 20 anni racconta con con passione e curiosità, su quotidiani e periodici, il rapporto tra gli italiani e il cibo, il cambiamento dei gusti (e dei disgusti) alimentari, la sociologia dei consumi, i mutamenti del carrello della spesa, le politiche industriali e distributive. E non si fa mancare neppure divertenti incursioni nel mondo del turismo enogastronomico e del lifestyle.