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Cacio Bavarese
Il Comune di Langhirano, per la cura di Gabriele Rozzi, ha recentemente pubblicato un libro di ricette tratto dai taccuini di cucina di Emma Agnetti Bizzi, figura di spicco della società langhiranese dei primi decenni del Novecento per le sue iniziative in campo assistenziale (fu presidentessa della Società Femminile di Mutuo Soccorso e promotrice dell'asilo infantile e del ricovero per anziani) e culturale (fondatrice della locale filodrammatica e animatrice della biblioteca popolare).
Il ricettario della Agnetti Bizzi desta interesse in quanto rispecchia le caratteristiche di una cucina borghese del primo Novecento, una cucina che trae spunto dalla scuola pragmatica del popolo e da quella ricercata degli chef titolati, ma che si pone al contempo come equidistante da entrambe: una cucina non così bassa da cadere nella volgarità ma nemmeno così elevata da rinchiudersi nelle atmosfere raffinate delle magioni nobiliari. Una cucina "moderna", attenta alle esigenze di quella classe sociale protagonista del secolo borghese la cui periodizzazione, com'è noto, giunge fino agli eventi del primo conflitto mondiale e che quindi ingloba i primi decenni del Novecento cioè il periodo, come dicevamo, nel quale l'Agnetti Bizzi compila i propri taccuini culinari.
Da essi estrapoliamo la ricetta del Cacio bavarese, un dolce al cucchiaio che si prepara così:
Tuorli d’ovo cotti, 8 - zucchero, once 3 - burro fresco, once 4 - vaniglia, centesimi 10
Si pestano in un mortaio i tuorli. Poi si passano allo staccio col burro e lo zucchero. Si aggiunge all’impasto un bicchierino di liquore a volontà. Si fodera lo stampo [coi] biscotti bagnati nel liquore. Vi si versa il composto e si mette in ghiaccio. [un'oncia corrisponde a circa 27 grammi].
Come si può notare si tratta di una preparazione semplice ma gustosa che necessita, per poter essere approntata al meglio, di un'assoluta qualità delle materie prime e cioè burro e uova. Per quanto concerne queste ultime val la pena notare come l'uso del tuorlo cotto rispetto a quello crudo, certamente più comune nelle preparazioni odierne, fosse dettato non solo dalla necessità di ottenere un composto più denso ma, verosimilmente, da esigenze igieniche in materia di conservazione. Altra osservazione ovvia: il dolce necessita di una ghiacciaia per poter essere opportunamente raffreddato, una disponibilità evidentemente riservata solo alle classi abbienti.
Il nome della preparazione richiama la più nota crema bavarese o bavarois, inventata dai pasticceri francesi alla corte dei Wittelsbach, da cui si differenzia però per la mancanza tra gli ingredienti sia della panna sia della colla di pesce. Ma perché 'cacio'? Si tratta, molto semplicemente, di una traduzione dal francese: il Fromage Bavarois è la denominazione con cui la bavarese viene menzionata nei ricettari transalpini dell'Ottocento (per esempio ne Le Cuisinier Royal di Alexandre Viard) tenendo ben presente che allora il termine 'formaggio' designava una qualsiasi preparazione a base di latticini fra le quali anche le creme a base di panna. In buona sostanza, rispetto alla ricetta molto più elaborata del canone gastronomico francese di origine nobiliare, il Cacio bavarese semplifica al massimo ingredienti e preparazione, come si conviene ad una cucina più essenziale, meno arzigogolata, ma non per questo meno gustosa, com'è quella borghese.
Val la pena notare che anche Pellegrino Artusi menziona nella suo ricettario la preparazione del Cacio, anche se tuttavia non lo nomina così. La sua ricetta si intitola Bavarese lombarda di cui scrive: «si potrebbe chiamare il piatto dolce del giorno visto che è bene accetto ed usato spesso in molte famiglie». Per la precisione la versione artusiana è molto più calorica di quella della Agnetti Bizzi (180 grammi di zucchero e altrettanti di burro per sei uova) ma entrambe condividono un'area di diffusione corrispondente alla bassa padana, terra di buon latte, buon burro, buone uova. Ancora oggi, peraltro, per chi voglia gustare il Cacio bavarese è consigliabile orientare le proprie ricerche verso la bassa parmense ove diversi ristoratori lo propongono (anche sotto il nome di Budino del vescovo) come degno fine pranzo, magari rammentando all'avventore come anche il maestro Giuseppe Verdi fosse un estimatore di tale specialità.
Ma, a questo punto, vi chiederete forse cosa c'entra la langhiranese Agnetti Bizzi con la bassa. L'arcano è presto svelato: il padre della Agnetti Bizzi, Arturo Agnetti, risiedette per alcuni anni in qualità di medico condotto a Monticelli d'Ongina, paese ove pure Emma si sposò. Quindi la nostra autrice non perse di certo l'occasione per inserire nei suoi taccuini di cucina il prelibato dessert così diffuso in quelle contrade.
Consigli di lettura
Emma Agnetti Bizzi, Ricette del primo Novecento, introduzione, edizione e glossario a cura di Gabriele Rozzi, Langhirano, Comune di Langhirano, 2016; La cucina di Verdi. Armonie di note, profumi e sapori sulla tavola del maestro, Milano, Giorgio Mondadori, 2003, p 112.
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Il patrimonio gastronomico del passato è una miniera tutta da esplorare per riscoprire le fondamenta storiche della cucina italiana.
Riscopriamo, con questa rubrica, le radici più profonde della nostra civiltà della tavola.
About the author
Alberto Salarelli
E' ricercatore presso il Dipartimento Lettere, Arti, Storia e Società dell’Università dell’Università degli Studi di Parma.
Oltre ai temi legati alla documentazione in formato digitale, coltiva un particolare interesse per la storia della cultura e della gastronomia, con particolare riferimento alla Pianura Padana; su questo argomento ha pubblicato diversi articoli e monografie.
Scrive per il periodico "MensArte".